RELIGIOSITA’ POPOLARE. Credenze e Miscredenze.
Il culto delle “Tre Vergini dell’Acqua Santa” questo culto, praticato nei mesi di agosto e settembre, interessa un vasto territorio compreso tra i Nebrodi Orientali e l’area etnea nord-occidentale, all’interno del quale ricade Maniace. La storia narra che durante una persecuzione anticristiana da parte de “i Faraoni”, le Tre Sorelle rifugiate in solitudine in un bosco, furono catturate e decapitate per non aver ceduto ai piaceri dei cosiddetti Ministri della Giustizia. La tradizione vuole che in quello stesso sito dove subirono il martirio, al cadere del loro sangue sgorgò una fonte d’acqua più tardi denominata “Acqua Santa”. Il luogo conserva tuttora una Chiesa dedicata alle Tre Sante Vergini, riconosciuta dai fedeli come meta religiosa, la cui sorgente di fronte alle loro preghiere, bolle, quasi a simboleggiare l’aver accolto le richieste, sulle quali opererà dei prodigi grazie ai sui poteri taumaturgici. La suddetta versione corrisponde alla variante ufficiale, a cui viene contrapposto un diverso racconto proveniente dalla tradizione orale: le Tre Vergini, figlie di un taglialegna rimasto vedovo, furono abbandonate in un fitto bosco dal padre, costretto a compiere tale gesto dalla sua nuova sposa. La più grande, insospettita, aveva disseminato il percorso di sassi in modo da poter ritrovare la strada del ritorno; sopraggiunto uno sconosciuto, attentò alla loro verginità, sacrificandone la loro vita. Per tale motivo i pellegrini lo hanno coronato luogo sacro. I singoli fedeli, dopo una promessa di voto, scelgono di portare con se alcune vergini, le quali si preparano per compiere il pellegrinaggio rimanendo a digiuno e affrontandolo scalze. Giunti sul luogo santo, dopo aver recitato delle preghiere all’interno della chiesetta dedicata alle Tre Vergini, ci si reca alla sorgente dove chi aveva fatto promessa scioglie il voto lasciando presso la fonte il proprio pegno. La credenza è che, se il pellegrinaggio viene fatto con viva fede, l’acqua inizia a bollire e il prodigio in favore degli infermi si esaudirà. Dopo aver compiuto questi rituali, si pranza e viene effettuato il viaggio di ritorno da una via necessariamente opposta alla parte da cui si è giunti, per giungere a casa, dove l’officiante congeda le verginelle con altre preghiere e offrendo loro dei doni.
Le verginelle di San Giuseppe (I Virgineddi). Il Rito ricorre ogni anno il 19 marzo per la festa di San Giuseppe. Si promettono “I Virgineddi”come voto fatto da alcune famiglie a San Giuseppe per guarire gli infermi. Alcuni giorni prima della festa vengono scelti dei bambini, di età compresa fra i 5 e i 9 anni, fra i più bisognosi e vengono invitati nelle case le cui famiglie hanno fatto la promessa. La tradizione richiede il sacrificio del digiuno mattutino, seguito, a pranzo, da un umile piatto a base di pasta e ceci, contornato da baccalà o da un altro tipo di pesce. L’importante è che non si mangi carne. Il seguito della giornata richiede momenti sia di preghiera che di gioco. Alla fine della giornata la famiglia in segno di ringraziamento dona ai bambini un’arancia, un pane e della cioccolata. Una tradizionale canzone che ricorda lieti momenti delle giornate primaverili la riportiamo di seguito:
San Giuseppe il vicchiarello,
cosa aviti nel cestello?
Erba fresca e frischi violi,
nidi uccelli e lieto sole.
mentre arriva primavera
canta a tutti la preghiera,
la preghiera dell’amore
a Gesù Nostro Signore.
I “gigghi”dell’ascensione Si tratta di una tradizione molto antica che ancora oggi viene praticata da qualche anziano. Questa usanza consiste nella raccolta nel periodo di maggio di una piccola pianta da trapiantare davanti casa propria. Ogni pianta veniva segnalata con lacci di diversi colori che stavano ad indicare i diversi raccolti. Lo scopo di questa pratica è quello di augurarsi un buon raccolto. Più la pianta cresceva maggiori erano le possibilità di raccogliere buoni e abbondanti frutti. Viceversa, se la pianta fosse rimasta bassa, il raccolto sarebbe stato scarso.
I “subburchi” del Venerdì Santo Quest’altra usanza consiste nella semina del frumento in un contenitore che viene messo al buio, durante la prima settimana della Quaresima. Ogni due giorni viene annaffiato in modo tale che cresca il frumento. Il rituale si conclude il venerdì santo, giorno in cui il frumento dovrà essere messo alla luce, abbellito con fiori e nastri e portato dai bambini in chiesa.
Luminaria. Durante la vigilia della festa liturgica dell’Ascensione, per il Corpus Domini, per la ricorrenza della festa di San Giovanni il 24 Giugno, per la Festa di San Pietro e Paolo il 29 Giugno, era consuetudine dei nostri anziani allontanarsi dalle proprie case per andare nei boschi e fornirsi della legna necessaria all’accensione delle cosiddette “luminarie”. Nel corso delle diverse occasioni, nella mangiatoia, a simboleggiare la salita al cielo di Gesù dopo la Resurrezione, o davanti le proprie abitazioni, gridando da una casa all’altra “Evviva San Giovanni”, per tradizione si faceva ardere verso le 20:00 la legna raccolta
I giochi di San Giovanni
In occasione della festa di San Giovanni il 23 Giugno, la vigilia, le giovani ragazze delle contrade maniacesi ansiose di sapere a quali giovani paesani erano destinate, si riunivano e attraverso vari espedienti davano vita ai cosiddetti “ iuochi i San Giuvanni”.
“I cacocciuri scecchi” Presi i fiori dei carciofi selvatici, e assegnati loro i nomi delle rispettive ragazze, si facevano alla brace e si lasciavano riposare per una notte. Dopo una notte di trepida attesa, le giovani il mattino seguente andavano a vedere il risultato della loro invenzione: se il fiore restava aperto o “spampinatu” il giovane amato, che a volte era pensato segretamente, sarebbe stato il probabile futuro sposo; se il fiore fosse rimasto chiuso, la delusione avrebbe preso il sopravvento.
“U cudduruni” di San Giovanni Sempre il giorno di San Giovanni le giovani ragazze impastavano farina, acqua e sale, creando così un panetto o “ u cudduruni”. Dopo averlo cotto e sfornato lo mangiavano, consapevoli che il sale usato per la preparazione avrebbe fatto venire loro tanta sete. Il primo giovane che, casualmente avesse offerto loro un bicchiere d’acqua, sarebbe stato il futuro sposo.
“I tri favi” Scelte tre fave, di queste una rimaneva intera, una leggermente bucata o “pizzicata”, l’ultima completamente priva del rivestimento esterno o “spugghiata” . Prima di andare a dormire si mettevano sotto il cuscino, con la speranza di sognarne una delle tre in modo da capire la posizione economica dell’amato. La fava intera simboleggiava grandi ricchezze; quella pizzicata “menza botta” ovvero un patrimonio poco consistente; quella “spugghiata” era segno di povertà |
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IL LAVORO NEI CAMPI
Un laborioso mestiere che riempie le pagine di vita di uomini e donne di Maniace è quello della mietitura. I campi popolati dagli umili contadini divenivano luoghi in cui consolidare le proprie esperienze, uno scambio continuo di storie, racconti, saperi, piaceri e dispiaceri. Vissuti comuni avvaloravano la vita di chi, dignitosamente lasciava il focolare domestico per affrontare nei vari periodi dell’anno i giorni angusti riservati dalle varie stagioni: in ottobre iniziava la semina “ri rauri cu la cavalcatura chi mpaiata sutta l’aratru, tirava e furricava u granu”; a gennaio e febbraio, germogliato il grano, si “scirbava”, cioè si eliminavano le erbacce; giugno era il periodo della mietitura: un lavoro faticoso perchè impegnava i contadini già dalle prime ore del mattino fin dopo il tramonto. Le spighe raccolte manualmente attraverso l’utilizzo della falce e raggruppati in mazzi (“du mausi”/ due mazzi corrispondevano a “nu iemmitu”), venivano poste atterra formando il cumulo che, con l’ausilio di due attrezzi chiamati “croccu” e “ancinedda”, ovvero un gancio e un bastone biforcuto, avrebbe costituito il covone di grano (“a gregna”, formata da “7 iemmiti”), legato con un filo di erba (“u ligami ca ina”), pronto per essere trasportato nell’aia nell’attesa di quando avrebbe avuto inizio la trebbiatura; dopo un mese circa di mietitura, a luglio, il grano era pronto per la trebbiatura. Quest’ultimo è un procedimento attraverso il quale si stacca la pula dai chicchi di grano che viene sgranato mediante la trebbiatrice, una moderna macchina che ha sostituito il manuale lavoro dell’uomo impegnato nella battitura del grano con invenzioni tradizionali: o, dopo aver trasportato “i gregni ntall’aria” (sull’aia), lo battevano con appositi bastoni ( il correggiato); o, con tre, quattro muli ( ciò dipendeva da quanto metteva a disposizione di tutti il più abbiente) che, entrati “nta pisera” ( luogo in cui avveniva “a pisatura”), oltre a costituire una forza lavoro non indifferente ( “a pisatura ru granu” pestavano il grano sotto le zampe degli animali, mentre gli uomini erano occupati “a spagghiari” ovvero a separare con un tridente, il chicco di grano dalla paglia), eranomotivo di gioia, momento conclusivo, ritaglio di una giornata in cui sconforto e sacrificio erano accompagnati da canti rigeneratori, invocazioni di santi, quasi a voler creare un’aura di fierezza e orgoglio intorno alle loro fatiche. Uno dei tanti
motivi che riaffioravano nei momenti di sconforto recita così:
Pigghiamura cu ccori la muntata
A la pinnina carchi Santu nni aiuta
Cantu e cavalcaturi.
Simu arrivati alli belli notizi
arriva l’ura di la santa cruci,
o cantu o cantu c’è l’Anciru Santu,
lu Patri, lu Figghiu e lu Spiritu Santu.
Cara so matri cu so figghiu ruci
manciamu tutti chi è fatta la cruci.
Chiamamu a San Ruminicu u varenti,
porta la para, livigghia e tridenti,
oh! chi vutassi tramuntana e boria,
uomini e fimmini spagghiamu all’aria.
Canti di ringraziamento a Dio a fine mietitura.
Quannu Sant’Antuninu era maratu
tutti li santi lu ieru a vvireru,
la matri santa ci purtò un granatu,
lu signuruzzu ddù puma gentili.
Confortati, Confortati maratu
chi tutti in paradisu nnama iri,
in paradisu ci su canti e soni
e nta lu nfernu lacrimi e suspiri
San Micheli Arcangelo splendenti,
vu siti u primu angelu di Diu.
Sutta li peri tiniti un sirpenti,
la spada a manu vi l’ha data Diu.
Aviti sti baranzi giustamenti,
pisati l’arma e ci la dati a Diu
Uora camu manciatu e ama bivutu
ringraziamu a Diu chi ni l’ha datu,
e Diu di ‘ncielu e di ‘nterra avi scinnutu
supra lu santu calici è pusatu.
Canto per il padrone durante la mietitura.
Pòrtaru Pòrtaru u santu barili,
Pòrtaru Pòrtaru Pòrtaru Tu.
E si nun puorti lu santu barili
i rauri ti meti tu!
ARTIGIANATO: UN INTRECCIO DI STORIE
Ancora oggi i giovani hanno la fortuna di poter ammirare alcuni anziani mentre si cimentano nella realizzazione di attrezzi da lavoro, un tempo indispensabili per il vivere quotidiano, oggi custoditi in luoghi che ne conservano la memoria quali importanti protagonisti di un antico vissuto. Esistono ai giorni nostri degli abili artigiani, conoscitori di posti ricchi di risorse da offrire, come i corsi d’acqua lungo i quali poter raccogliere la verga, indispensabile ai nostri maestri per la lavorazione di vimini, i cui elaborati sono canestri, “ i cannistri”, e capienti ceste dette “panari”; sentieri all’interno cui poter trovare la ferla, “a ferra”, utile per la creazione di utensili che servono da mobilio, quali ad esempio “i furrizzi”; crine di animali, che intrecciate da mani esperte danno vita a robuste corde, “a paiura”,”a pastura”, “u nervu” le quali sfidando la forza degli animali, divengono indispensabili in lavori quali la pastorizia e l’agricoltura.
Iò sacciu i canzuni ra minzogna
A nudda parti ci nn’è viritati
Stanotte mi susìu e visti aiuòrnu
Pigghiaiu a fauci e mi nni iu a siminari
Passaiu sutta un peri di cutugnu,
tiraiu e mi scippaiu nu granatu
Si nnaddunò a patrona di li fica
e mi rissi chi cciava cotu li ciarasi
E mi tirò na petra nta li rini
u sangu mi correva di li mani,
nunnaiu chi pezzi na cuscini
mi mi stuiu u sangu di li peri
Nautra canzuni ra minzogna.
Visti affacciari lu suri di notti
visti fari ricotti senza latti
e visti siminari favi cotti
‘nta l’ uri i aprili fica fatti
visti abburari du parumma cotti
si na abburaru cu tutti li piatti
visti raurari du bo morti e
lu buvaru era mortu sparti
uora vannu pi nenti li ricotti
schietti e maritati fannu latti
CANTI AMOROSI: “A NUCIDDARA” ED ALTRE TRADIZIONI.
A fuitina Fino a una decina di anni fa una delle forme d’unione più diffusa fra le giovani coppie era la “fuitina”, vale a dire la scappatella di innamorati, che all’insaputa di tutti, fuggono via per un periodo che poteva variare dai tre giorni ad una settimana. Al ritorno i due “fujuti” venivano accolti e festeggiati, nonostante l’astio che a volte questa pratica generava fra i genitori della coppia, e come veri e propri sposi venivano ospitati nelle loro case fino a quando non avrebbero provveduto a trovare un’opportuna dimora. L’origine di questa pratica risale al periodo della dominazione araba in Sicilia e aveva lo scopo di sfuggire ai rimproveri del padre che per interessi familiari destinava la figlia ad un matrimonio combinato. Alla povera infelice non rimaneva che la fuitina con l’uomo del quale era effettivamente innamorata. Di fronte a tale situazione il genitore non poteva che accettare la scelta della figlia ormai “compromessa”. Non raramente la scappatella avveniva per celare rapporti sessuali prematrimoniali che avrebbero danneggiato l’onore della famiglia della donna.
La serenata Al ritorno dalla “fuitina” è consuetudine organizzare per la novella coppia la serenata, nella tradizione una serata di canti e balli popolari, nati dall’estro creativo e dall’animo sensibile dei cantastorie, uomini la cui inventiva li faceva autori di lirichette amorose che deliziavano innamorati e ospiti, coinvolgendoli in balli che rendevano manifesta la gioia per la nuova unione. Questa pratica avveniva all’insaputa della coppia, che veniva svegliata durante la notte dal suono della fisarmonica che accompagna alcuni canti polifonici a cappella, gergalmente definiti “nuciddara”; tra i motivi prevale quello importato dal paese d’origine di molti maniacesi, ovvero Tortorici, costituito da un testo dialettale che recita così:
A nuciddara
E ‘sti signori vonnu mi ci cantu
e vonnu cantati canzuni d’argentu
ma la me testa nun mi reggi tantu
a cantari ‘sti canzuni a cumplimentu.Sugnu arrivatu apposta ppi cantari
da Spagna mi purtaju u sunaturi
lu gigghiu sugnu ju c’aiu a cantari
la rosa è lu nostru snaturi
la sposa è nu garofunu d’amuri
e lu sposu n’angelu reali.A tia cu sti capiddi biondi e ricci
e ‘ntesta li va purtannu mazzi mazz
cu ‘n pettinu d’argentu li scaddizzi
e cu tri fili d’oru ti li ‘ntrizzi.Quanti aceddi ci su malvi e malvezzi
tanti omini ppi tia nesciunu pazzi
e tu si figghia di tanti biddizzi
attacchi e sciogghi l’omu senza lazzi. |
Traduzione
E questi signori vogliono che io canti,
e vogliono che io canti canzoni d’argento ,
ma la mia testa non ragiona bene
per cantare questo tipo di canzoni
Sono arrivato apposta per cantare
ho portato il suonatore dalla Spagna
il giglio sono io che devo cantare
la rosa il nostro suonatore
la sposa è un garofano d’amore
e lo sposo un angelo reale
A te con questi capelli biondi e ricci
che li porti in testa legati come mazzi
e con un pettine d’argento li snodi
e con tre fili d’oro li rileghi.
Così come ci sono tanti tipi di uccelli
tanti uomini per te impazziscono
tu sei figlia di tante bellezze
leghi e sciogli l’uomo senza lacci |
L’insieme è accompagnato da altre voci che generalmente emettono un contrasto lamentoso. Terminato il canto, che nel frattempo ha ridestato la coppia di innamorati, ecco allestire un allegro banchetto conviviale preparato dai genitori della sposa. La serata prosegue consumando carni, formaggi, pane casereccio, sott’oli, e vino di casa mentre si continua a suonare e ballare. I convenuti, danzano allegramente fino alle prime ore dell’alba.
L’uso di organizzare la serenata ancora sopravvive, sebbene sia diventato ormai raro e privo delle tradizionali usanze, ed è stato esteso non solo alle coppie di “fujuti”ma anche a coloro che si sposano secondo il rito ufficiale.
Sutta la to finestra c’è nu giardinu
Chi intra ci staci un peri r’arancera
Intra la cima ci starà nu niru
Intra ci stanno l’acidduzzi to
Stiri ca mani e ti nni prenni unu
E ti lu matti nta na gargia r’oru
La gargia sini tu donna di amuri
L’aceddu sugnu jo chi ci aju a stari.
Facciuzza di na persica anzalora
Stanni pi certu chi jò vogghiu a tia
Noi nn’amu amatu, e nn’amu amari ancora
Pi dispettu di cu n’avi gilusia
Tannu cissirannu i me rasora
Quannu ni jimu alla chiesa cu tia.
Gli scongiuri <<Ancora oggi come atteggiamento di difesa, in un’era di cieca irrazionalità e mancanze di certezze, la magia rappresenta il rifugio sicuro di chi ha bisogno di una parola di conforto e di incoraggiamento>>.
Ciò naturalmente avviene anche a Maniace e tramite gli scongiuri si cerca di trovare per l’animo di chi soffre, parole e procedure tranquillizzanti. Tutto il rito è avvolto nel segreto e nel mistero: l’anziano saggio borbotta furtivamente “a lizioni”, le sue formule, ciò è il segno manifesto del carattere intimo del rito di magia che non può essere rivelato a persone diverse da quelle che devono servirsene. Le operazioni magiche hanno fine terapeutico e gli scongiuri nella medicina popolare sottintendono l’intervento divino. Diversi sono i casi ai quali viene applicato tale rito. A titolo esemplificativo ne citeremo alcuni:
Contro i Vermi Quando i bambini sono afflitti da mal di pancia, causato da uno spavento, vengono portati da un’anziana, che dopo aver recitato un orazione rigorosamente segreta (può essere esternata solo di Venerdì agli aspiranti maghi), preso un filo, si misura il bambino in lunghezza ed in circonferenza, si ripiega più volte su se stesso e lo si taglia con le forbici. Durante queste operazioni si recita il seguente dialogo tra la madre del bimbo e l’anziana:
Cummari chi tagghiati? Comare cosa state tagliando?
Tagghiu i vermi. Taglio i vermi
A cu cci tagghiati? A chi li state tagliando?
A (il nome del bimbo) A (nome del bambino)
Tagghiari boni. Tagliateli bene.
Rassati fari a mia. Lasciate fare a me.
Dopo questa interazione si mette il filo in una bacinella d’acqua, se i fili tagliuzzati rimangono fermi vuol dire che il bimbo non aveva i vermi, se i fili si intrecciano i vermi sono stati eliminati. Successivamente verrà fatta bere al bimbo un po’ d’acqua mista ad aglio.
Contro il “malocchio” (le occhiature). Quando qualcuno soffre per il mal di testa c’è la possibilità che sia stato causato da qualche sguardo pieno di negatività: in questo caso si usa dire “mi ittaru u marocchiu”. Per superare gli effetti della negatività ci si reca da un’anziana o in alternativa viene portato qualche oggetto appartenete al malato.
L’anziana toccando la testa dell’interessato o l’oggetto inizia a recitare la prima formula che sintetizza il modo in cui viene trasmessa l’energia negativa, che grazie alla sua pregnanza, priva della loro vitalità anche gli elementi della natura.
Santa Maria stasira Santa Maria questa sera
Supra na chiappa i marmuru siria Sedevo sopra una lastra di marmo
A sita tagghiava a sita scusava Cucivo e scucivo la seta
Passò na mara ucchiatura Passata un’occhiata ed una guardata
Cu na mara guardatura negativa la fontana e l’albero si sono
A funtana ssiccò l’arbiru ammarugghiò seccati. A me, una persona mi ha buttato
A mi, a persona n’terra mi jittò. atterra.
Giunti a questo punto l’anziana inizia a borbottare le segrete orazioni magiche e dopo aver terminato segna con una croce in testa il malato, o diversamente, fa la croce all’oggetto. Se il mal di testa dipendeva dal malocchio, la maga nel borbottare le orazioni avrà avuto la lingua legata e la forza negativa sarà schiacciata. Se durante il rituale non si manifestano segni particolari, l’occultismo dell’evento rimane solo pura superstizione, e le ragioni dello scettico prendono il sopravvento.
La lamentazione funeraria. Era di uso comune nell’antica Grecia il pianto rituale per i morti che esprimeva il dolore dell’intera società e segnava ritualmente il passaggio ad altra vita. Quest’uso viene ancora perpetuato, soprattutto tra le anziane donne, anche a Maniace ed in altre zone del Nebroideo. Alle morte di un caro le donne vestite a lutto e sedute ai piedi della salma, posta in una camera ardente allestita in casa, piangono per tre giorni e tre notti in modo recitativo, manifestando ed enfatizzando il proprio dolore attraverso invocazioni e lamenti sulle qualità e virtù del defunto. Si fa il voto di indossare il lutto per un periodo determinato che varia dai sei mesi ai tre anni e, in quest’arco di tempo vengono negate tutte le feste e i divertimenti in segno del rispetto del proprio caro.
Per le donne questo è un vero calvario in quanto il nero, secondo la tradizione, denota qualità negative, come creare danni alla vista e bloccare qualsiasi istinto di felicità delle stesse donne. Attraverso un simile percorso, manifestano il loro dolore e l’attaccamento al proprio caro. Durante i tre giorni di lutto i vicini, consapevoli del momento di sconforto, preparano abbondanti portate per i parenti del defunto, come segno della loro vicinanza al dolore. Nei giorni seguenti anche conoscenti ed amici portano il cosiddetto “ visitu”, consistente in provviste varie.
Il velo in testa. La cultura islamica ha lasciato parecchi segni sulla nostra isola fra cui quello di portare il velo sulla testa, diversamente dalle nostre antenate che lo legavano sulla nuca. E’ ancora oggi consuetudine, fra le donne più anziane del nostro paese, tenere sul capo una veletta, chiamata “U fazzulettu”, come segno di sottomissione e rispetto al marito. I veli, in genere, variano di colore a seconda se una giornata sia normale o di festa. Nel periodo del lutto il velo dovrà essere rigorosamente nero. |